IN OGNI ESPERIENZA C’È QUALCOSA DI BUONO

Intervista alla professoressa Luisa Arleoni  (docente di italiano e storia)

 

Bene, Luisa, cosa ci racconti sui tuoi ricordi di scuola?

Oh, ho molti bei ricordi. Ho fatto le elementari in un paese vicino a Reggio Emilia. Avevo una maestra meravigliosa, la maestra Manganelli, ho fatto con lei la prima

e la seconda elementare. Ci faceva lezioni affascinanti, andavamo in giardino, visitavamo i contadini, imparavamo in mille modi piacevoli. Poi, purtroppo,

la maestra venne trasferita. Fu sostituita da una maestra molto meno interessante; eravamo anche in una pluriclasse con molti bocciati. Mia madre decise di portar

via me e mia sorella gemella da quella scuola dove non imparavamo più niente

e ci trasferì dalle suore.

 

Quindi hai una sorella gemella?

Sì, siamo sempre state molto diverse. Io amavo leggere e mi perdevo in mondi fantastici, lei aveva senso pratico e amava le attività motorie. Insomma, eravamo complementari. Io mi affidavo a lei per alcune cose e lei a me per altre. Però

questo ha generato qualche problema: siccome a lei non piaceva studiare, quando lei veniva interrogata e andava male, io mi vergognavo e  lo vivevo con un senso

di colpa. Ho scoperto solo da adulta che lei, inconsapevolmente, è stata la causa

di un momento buio della mia vita scolastica.

 

Cioè?

In seconda media mia sorella venne bocciata. Io avevo bei voti in tutte le materie tranne matematica, in cui avevo 5. Fui rimandata. Mi preparai bene e all’esame

feci una prova – a mio avviso - discreta. Ma fui comunque bocciata. La cosa mi ferì molto, soprattutto perché non la capivo. La considerai una sconfitta poco compresa ma accettata: in fondo i docenti – pensavo comunque tra me – sapevano ciò che facevano. Tuttavia cominciai a sentirmi “inadeguata” Proprio io, che fin dalle elementari venivo chiamata “la maestrina” (cosa che mi faceva sentire molto

a disagio…). Questa vicenda mise in crisi la mia autostima. Poi, da adulta, mia madre mi confessò che aveva chiesto lei di bocciarmi, già a maggio, perché voleva che io restassi con mia sorella e l’aiutassi nelle difficoltà che aveva.

 

Una scelta comprensibile, ma anche molto penalizzante per te...

un genitore probabilmente oggi non lo farebbe.

Sì, è stata dura. Per anni ho rimosso questa storia, l’ho messa tra parentesi, l’ho “accettata”. Ho dovuto dimenticarla per anni perché non riuscivo a darmi spiegazioni convincenti.

 

E poi , come andò dopo la bocciatura?

In terza media mi sono letteralmente scatenata: ero indisciplinata, facevo cose matte e distraevo tutta la classe. Per esempio scrivevo romanzi a puntate e tutte

le mie compagne si contendevano il manoscritto, leggendolo sotto il banco nelle lezioni di matematica o di latino, invece di seguire le lezioni. Insomma, avevo

una  pessima condotta in classe, benché mi interessassi allo studio, soprattutto

delle materie umanistiche. Di quell’ anno ricordo solo le lacrime della mia prof.

di italiano (Suor Eletta) quando leggeva ad alta voce i miei “componimenti”.

Io mi vergognavo un poco… ma poi ci presi  l’abitudine: in fondo le mie compagne mi apprezzavano non tanto per i temi in classe, quanto per il romanzo a puntate… molto più coinvolgente…

 

Dopo la scuola media, quali furono le aspettative dei genitori nei vostri confronti?

Mio padre aveva un’idea chiara sul nostro futuro. Eravamo tre femmine, perché

nel frattempo era sopraggiunta un’altra sorellina… Avremmo dovuto prendere

un titolo di studio che ci permettesse di andare a lavorare, poi era previsto

il matrimonio per tutte. Così mio padre decise che avrei fatto ragioneria.

E la feci, anche se non era quella la scuola che desideravo. Smisi di fare la matta

e feci le superiori. Appena finto il corso di studi  avevo già un lavoro pronto che

mi aspettava: me lo aveva trovato mio padre.

 

Fu un momento triste?

Solo inizialmente. Avevo una grande capacità di adattamento e molta voglia di fare cose nuove. In quegli anni le donne cominciavano a scioperare. Io, impiegata,

feci degli scioperi con le operaie, e questo era molto inusuale (c’era una linea

di demarcazione netta tra impiegati e operai, a quel tempo, e non ci si mescolava mai). Poi però mi stancai  di quel lavoro che non era ciò che desideravo. Così dissi

a mia madre che volevo fare l’università, e lei mi appoggiò.

 

Quindi tuo padre e tua madre avevano delle aspettative diverse su voi figlie?

Sì, mia madre voleva che noi studiassimo, mio padre voleva solo che ci sposassimo.

Fu una fortuna avere l’appoggio di mia madre, che ambiva per noi a ciò che lei, pur desiderandolo, non aveva potuto fare.

 

E all’università?

Beh, quelli furono anni splendidi. Feci l’università a Parma. Lì scoprii tutto: amore,

politica, libertà. Insomma, fu un’esperienza formativa eccezionale.

 

Bene, ci dici qualcosa sugli insegnanti che hanno lasciato un segno positivo?

Sono pochi. La maestra Manganelli, di cui ho già parlato. E poi suor Innocentina,

che si commuoveva leggendo ad alta voce i miei temi. Era molto gratificante. Anche

un insegnante delle superiori che amava molto Dante e la letteratura e me l’ha fatta amare. Mi piaceva molto l’inglese e poco la matematica.

 

Hai avuto particolari difficoltà con lo studio?

No, non facevo fatica a memorizzare. Sono una “visiva”: nella mia mente scannerizzavo la pagina del libro. Io ho sempre avuto una passione per i libri. Da piccola ne avevo pochi, ma li sapevo quasi a memoria, a forza di leggerli e rileggerli. Quindi, tornando al metodo, io sottolineo molto, osservo molto, così tutto mi resta in mente. Ho imparato a prendere appunti alle medie e l’ho sempre fatto senza fatica.

 

E nelle interrogazioni?

Andavo con disinvoltura, tranne che con qualche insegnante severa e molto rigida

che mi intimoriva.

 

E della maturità, cosa ricordi?

Che ho studiato poco. Ero andata al mare con un’amica e avevamo poca voglia di studiare. Poi è andata bene  lo stesso. Certo, se avessi studiato di più sarebbe andata meglio, ma io ero contenta lo stesso. E non mi sono pentita.

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Ci racconti che tipo di studente sei stata?

Brava e molto diligente fino alla 3° media. I miei ci hanno sempre tenuto moltissimo al mio studio, anche perché questo è stato lo strumento per l’emancipazione dei miei genitori, che grazie alle loro capacità e all’istruzione, hanno potuto realizzare un “salto sociale” in avanti rispetto ai miei nonni.

 

E al liceo?

Io ho fatto il liceo scientifico, in una succursale fuori Milano. Avevo scelto di fare

lo scientifico perché alle medie  le mie insegnanti di matematica e scienze erano bravissime e mi avevano fatto amare la materia. Invece quando sono arrivata

al liceo era tutto più duro, soprattutto a partire dalla terza. In matematica e poi

in fisica me la cavavo appena appena e soprattutto non mi piacevano.

Così, in qualche modo, ho scelto di studiare solo le materie che mi davano più soddisfazione e amavo di più: cioè tutta l’area umanistica, in particolare italiano

e inglese. Quindi mi sono ritagliata un po’ una scuola su misura per me. Poi non

è che io fossi una studentessa tranquilla: qualche volta rispondevo ai professori

e comunque facevo un po’ quello che volevo. Eravamo nella seconda metà degli anni ’70. Anni di contestazione giovanile e di fermenti nel mondo studentesco.

Io mi facevo un po’ gli affari miei, ma il clima era quello.

 

Contenta di quegli anni?

Beh, certamente le alte aspettative dei miei genitori mi hanno un po’ oppresso: era come se quello che ottenevo non bastasse mai. Se avevo 7, doveva essere 8; se avevo 8, doveva essere 9.

 

Problemi di metodo di studio?

No, mi piaceva molto leggere e non avevo problemi di rendimento. Forse un piccolo problema ce l’avevo, ma l’ho scoperto molto più tardi, seguendo mia figlia a scuola.

 

Che cos’hai scoperto?

Beh, io non sono mai stata bravissima in matematica. Alle elementari ci facevano fare le gare di “conticini” e io non vincevo mai. Questo mi scocciava. Mi facevo allenare da mio fratello, che era molto veloce. Mi rendo conto che io memorizzavo

il suono delle parole, ma non visualizzavo i numeri in nessun modo. Ti è chiaro?

 

Sì. Questo cosa c’entra con tua figlia?

Quando mia figlia ha iniziato le elementari, mi sono accorta che faceva fatica

a scrivere nelle righe, poi che faticava con i numeri. Le maestre non hanno preso sul serio questi aspetti, perché la bambina, in cambio, leggeva velocissimamente

e andava bene in tutte le altre materie. Solo in terza elementare si è scoperto che aveva una lieve disgrafia e una lieve discalculia. Fu allora che mi chiesero se anche io o mio marito  avevamo avuto problemi di questo tipo, e a me è venuta in mente

la mia difficoltà con la matematica e poi il rifiuto che avevo per lo studio di quelle materie. Se non fosse venuto fuori il problema di mia figlia, non ci avrei più pensato. Invece ho capito che lei, come avevo fatto già io, si è buttata sulle materie umanistiche per compensare la fatica che ha fatto sin da subito con i numeri.

 

Cos’hai fatto per aiutare tua figlia?

Io ho scelto la strada di dichiarare il disturbo e chiedere perciò il diritto alle misure dispensative e compensative. Intendi quegli strumenti che agevolano le persone

che hanno un disturbo specifico dell’apprendimento? Sì, proprio così. Non è una scelta facile per un genitore. Qualcuno pensa che sia meglio non dichiararlo. Qualcuno, di fronte alle difficoltà del figlio, non vuole neppure pensare a un’ipotesi del genere e non svolge nessuna indagine in questa direzione; è un modo per non soffrire, per non diventare consapevoli dei limiti che si hanno. In ognuna delle due scelte ci sono vantaggi e svantaggi.

 

Quali sono gli svantaggi per un ragazzo che viene riconosciuto come "alunno DSA"

(disturbi specifici dell’apprendimento)?

Beh, se sei "un DSA" il rischi è quello di essere emarginato dai compagni, soprattutto se hai il diritto di usare la calcolatrice durante i compiti di matematica. In qualche modo ti viene messa addosso un’etichetta. Che non fa mai piacere.

 

E se invece non dichiari le tue difficoltà?

Allora ci sono due possibili rischi. Il primo: tu hai dei limiti ma non lo sai e credi

che gli altri non ti capiscano, pensi di essere un genio incompreso o qualcosa

del genere. Il secondo è che ti crolli l’autostima: tu lavori, lavori, ma i risultati

non si vedono. E ti domandi se sei un cretino. Secondo me è importante invece

che ognuno sia consapevole dei propri limiti e delle proprie risorse, e che possa crescere sviluppando al massimo le sue capacità nel modo che gli è più funzionale.

 

Quindi cosa consigli ai ragazzi che sospettano di avere qualche disturbo dell’apprendimento?

Di dichiararlo, di lavorare con tutti gli altri perché vengano aumentate le risorse

a loro disposizione, vengano avviati percorsi per migliorare le possibilità di studio di questi ragazzi. All’estero si fa molto di più che in Italia. Bisogna farsi sentire.

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Qual è stato il tuo percorso di studi?

Ho studiato a Napoli, la città dove sono nata. Nell’altro millennio l’arrivo di una bambina dopo tanti figli maschi era considerato un auspicio per il benessere. Da grande mi hanno raccontato che è stato proprio così, ma forse c’entravano anche gli anni Sessanta. I miei genitori avevano frequentato le scuole elementari, però  mio padre leggeva tutti i giorni

il giornale, mia madre quando poteva leggeva libri. Io giocavo sempre con una squadra

di acrobati: i miei fratelli! Ho frequentato le scuole elementari dalle suore con grande sofferenza perché non ci si divertiva mai, la scuola superiore è stata scelta per me da

una cognata: fu individuato l’istituto magistrale perché il titolo di studio consentiva

di lavorare subito da maestra. Più tardi ho scelto la facoltà universitaria seguendo l’istinto, sapevo che erano studi nuovi e interessanti e mi aspettavo che fosse divertente: non mi sono sbagliata, il corso di laurea in sociologia è stato interessante fin dal primo giorno.

 

Cosa ricordi del tuo approccio iniziale con la scuola? 

L’incontro con la scuola non è stato felice innanzitutto perché sono andata scuola a cinque anni; non ero pronta, avevo ancora tanta voglia di giocare e le insicurezze furono molto mortificate da una suora che mi prendeva in giro. La difficoltà più grande fu l’uso dell’italiano, perchè in casa si parlava il dialetto. Avevo identificato questi come la lingua della gioia, mentre l’italiano mi appariva serio e triste infatti i medici parlavano in italiano! A scuola niente era divertente come a casa, le lezioni erano noiose e le bambine amavano dimostrarmi che loro ce la facevano. Non ero indifferente però alla curiosità d’imparare. Sapevo che nei libri si scoprivano cose nuove, curiose e interessanti ma il modo in cui

a scuola si facevano queste scoperte mi annoiava! I miei fratelli al confronto erano molto più bravi: per studiare le chimica e la fisica si facevano solo “esperimenti di laboratorio”. Una volta mi hanno dato da bere l’acqua con dentro una sostanza effervescente, io dovevo indovinare cosa fosse ma non ne fui capace.  Poco dopo  qualcosa accadde nella mia pancia e tutti intuimmo che l’esperimento era riuscito!

 

Che cosa ti ha aiutata a superare le difficoltà scolastiche dei primi anni di scuola? 

Nonostante le difficoltà iniziali a casa mi incoraggiavano, tutti erano certi che sarei diventata una brava studentessa. I fatti parlavano chiaro: capivo tutto, quindi prima

o poi avrei avuto buoni risultati. Ed inoltre sapevo preparare una frittata di uova, ero

una eccezionale saltatrice, nuotavo bene. Nella vita avrei trovato la mia strada.

 

Le frustrazioni che hai affrontato hanno avuto importanza nella tua formazione?

Non era proprio così semplice ed è stato faticoso perché non sempre a casa ricordavo

le spiegazioni della maestra. Poi scoprii che potevo diventare brava aiutandomi con

la memoria, imparavo a memoria dei modi di dire che capivo nel significato ma che non facevano parte del mio linguaggio quotidiano, mi sembrava quasi di parlare con quelle parole inventate che usavo nei giochi con i miei fratelli. Queste non mi facevano ridere

ma prendere bei voti, era pur sempre un divertimento.

 

Passiamo alle superiori. Cosa è successo?

Il primo giorno delle scuole superiori avevo indossato un abito nuovo, era un giorno importante per tutta la famiglia, ero diventata una studentessa. Senza che me ne accorgessi ho fatto progressi e sono migliorata grazie ai suggerimenti di una prof: scrivere sempre

con chiarezza e avere i quaderni in ordine, studiare tutti i giorni anche per poco ma non abbandonare mai l’abitudine del momento dedicato allo studio. Oramai me la cavavo

ma c’erano sempre LE PAROLE SCONOSCIUTE: questa volta era latino. La professoressa aveva un grande senso del dovere e questo mi affascinava, essere impreparata avrebbe significato vanificare i suoi sforzi la sua inesorabile presenza a scuola nonostante

le difficoltà di salute.

 

Ecco un insegnante che ti ha dato davvero qualcosa. Potresti parlarci dei professori

che secondo te ti hanno insegnato cose importanti ?

Alle scuole medie le cose sono andate meglio che alle elementari perché ho incontrato

un insegnante di matematica molto simpatico. Era alto, magro, pelato e con un sorriso coinvolgente. Quando spiegava ci convinceva che capire lo svolgimento delle formule

era una sfida e tutti potevano vincere. Bisognava però scoprire la strada giusta come in

un labirinto. Ciascuno di noi doveva decidere per sé quale fosse a casa il luogo più adatto per la concentrazione, non era necessariamente una scrivania o la propria cameretta

ed era importantissimo aspettarsi un riposino dopo ogni compito finito. Bisognava organizzarsi sempre la possibilità di una distrazione che fosse premio e riposo in modo

da recuperare la voglia per ricominciare a studiare.

 

Perché hai scelto di frequentare l’Università?

Ho scelto di frequentare  l’università per mettermi alla prova, ne avevo parlato a casa

e in una indimenticabile riunione di famiglia tutti votarono a favore con la promessa

che se avessi avuto difficoltà senza problemi avrei cambiato strada e avrei cercato

un lavoro. Mi iscrissi al corso di laurea in sociologia perché mi incuriosiva un corso

di studi nuovo che consentiva di avvicinare discipline che avevano come centro

della riflessione l’ESSERE UMANO.

 

Cosa hanno rappresentato per te gli studi universitari?

Gli studi universitari si sono rivelati un’esplosione di scoperte: nuovi amici, nuovi metodi di studio, nuovi saperi. È stata un’avventura straordinaria!

 

Se tu dovessi elencare gli "ingredienti" che ti hanno permesso  di avere risultati positivi

a scuola, quali sarebbero i primi tre in ordine di importanza?

La curiosità, la capacità di non mollare e l’amore per le sfide.

 

Hai una bacchetta magica… che ti permette di lasciare un messaggio nella testa di tutti

i tuoi studenti perché abbiano successo nello studio. Che messaggio lasci?

Non ti fermare, quello che non sai va conquistato con slancio, basta individuare la chiave giusta per aprire lo scrigno, tutto quello che imparerai ti darà una vita migliore e giorno per giorno studiare sarà più bello e più facile.

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Intervista al prof. Andrea Gilardoni (docente di economia aziendale e discipline turistiche)

 

Bene, Andrea, ci racconti dei tuoi ricordi di scuola?

Ho dei bei ricordi, specialmente delle superiori. Ho frequentato le medie e le superiori

al Leone XIII. Si potrebbe pensare che sia stato tutto grigio e impegnativo, invece mi sono anche divertito. A scuola andavo abbastanza bene, non ero il migliore ma me la cavavo

in tutte le materie. Però avevo 8 in condotta, cosa che segnalava la mia vivacità.

 

Quali materie ti piacevano?

Ero molto bravo in matematica, non mi piaceva latino, mi piaceva la letteratura

e mi piaceva leggere. E mi piace ancora molto.

 

E all’università?

Ho fatto economia all’Università  Bocconi. Non ho avuto problemi, anche se ho sempre avuto anche un’altra vita, che non aveva niente a che fare con l’università. Infatti, sin

dal liceo, facevo nuoto agonistico. Mi è sempre piaciuto moltissimo, e ho sempre desiderato fare l’istruttore in piscina. Già, l’altra cosa che mi è sempre piaciuta è l’insegnamento.

Sono riuscito a prendere il brevetto, e sai cosa facevo? Andavo a lavorare senza dirlo

ai miei genitori, che non me lo avrebbero permesso perché ci tenevano troppo agli studi. Ho cominciato a lavorare a 17 anni. Durante gli anni di università, arrivavo a  lavorare anche trenta ore alla settimana  in piscina. Non era una questione di bisogno economico, era proprio un bisogno mio di realizzazione personale.

 

Intendi dire che avevi bisogno di realizzarti su più fronti?

Sì, era il senso della mia vita. Io sono figlio unico e ho avuto  due genitori severi, che avevano aspettative diverse rispetto a me. Mio padre è sempre stato molto sportivo:

era figlio di un calciatore del Genoa di serie A, poi diventato allenatore. Mio padre era  ragioniere, partito dal nulla, ed è diventato direttore generale e amministratore unico

di una grande società. Poi ha aperto un’azienda, che gli ha dato e gli dà ancora oggi

(ha 80 anni) molte soddisfazioni. Lui mi ha sempre incitato alla realizzazione sportiva.

Invece mia madre ha frequentato l’Accademia di Brera, poi si è messa a fare i Caroselli

(te li ricordi?). Ma quando sono nato io ha lasciato il lavoro e si è sempre occupata di me.

Ci ha sempre tenuto al mio studio. Io ho cercato di accontentarli tutti e due.

 

Come mai hai fatto la Bocconi? Cosa c’entrava con le tue passioni?

A me non piaceva la Bocconi, volevo fare il pediatra. Mi sarebbe anche piaciuto fare scienze motorie. Ma ai miei questo non sembrava sensato. Però poi studiare economia

mi è piaciuto, anche perché andavo bene in matematica. Sono stato felice soprattutto quando ho scoperto che potevo continuare con la piscina.

 

E poi, come sei arrivato all’insegnamento?

Dopo ho fatto  il servizio militare, facendo il concorso come ufficiale. Mi sono divertito anche lì: ero in montagna, mi piaceva sciare, muovermi, immergermi nella natura...

ho persino pensato che potevo continuare a fare quella vita. Quando ho finito il militare,

ho iniziato a fare colloqui per l’assunzione in azienda. Non mi ci vedevo proprio, tutto

il giorno fermo, abbandonando lo sport. Infatti poi, benché avessi già superato la selezione per un posto di tutto rispetto, non me la sono sentita di accettare. Ho scelto di rientrare

in piscina e di dedicarmi all’insegnamento.

 

Torniamo alla scuola. Hai avuto degli insegnanti che hanno lasciato un segno?

Sì, due. Uno era il prof. di italiano e latino del quarto e quinto anno. Molto severo e molto  colto. Mi ha trasmesso l’amore per la letteratura e la passione per ciò che si insegna.

Con lui ho imparato la bellezza della lettura, e poi dell’arte e della musica. Lo ringrazierò finchè campo. E poi con lui ho imparato a prendere appunti, a organizzare i contenuti,

a distinguere gli aspetti fondamentali da quelli marginali. Poi c’era l’insegnante

di matematica del  liceo, che mi ha trasmesso la passione per la matematica. Anche

con lui ho appreso un ottimo metodo di lavoro. Però c’erano anche insegnanti con cui

non ci trovavamo. Ancora oggi, quando ci incontriamo tra vecchi compagni di scuola, ridiamo dei professori che abbiamo avuto.

 

Hai parlato di metodo di studio. È stato un aspetto importante per il successo scolastico?

Sì, il metodo di studio è fondamentale per studiare, ma anche per lavorare. È molto importante organizzare bene i contenuti del libro di testo, ed è indispensabile saper prendere dei buoni appunti.

 

E nelle interrogazioni, come andavi?

Ero molto timido, perciò ho fatto un corso biennale di teatro per poter affrontare gli esami all’università. Questa esperienza è stata fondamentale per sbloccarmi. La respirazione,

la gestualità, la necessità di stare di fronte agli altri mi sono servite per essere più sicuro nelle interrogazioni e negli esami universitari.

 

Quali modalità degli insegnanti facilitavano la tua espressione e quali ti bloccavano?

Se un insegnante mi considerava come persona, non come un semplice cognome dell’ordine alfabetico, questo mi aiutava molto. Infatti l’anonimato all’università

mi terrorizzava. Insomma, mi aiutava l’empatia. Anche se un insegnante era durissimo, l’importante per me era sentirmi valorizzato e stimato. Tutto questo mi è servito per capire che tipo di insegnante volevo diventare: qualcuno che trasmetta l’amore per la materia.

PROF. ANNA GAGLIANO

PROF. ANDREA GILARDONI

PROF. LAURA FERRARI

PROF. LUISA ARLEONI

STORIE DI INSEGNANTI